Il battibecco tra Semple e Kapoor racconta un fatto poco noto del mondo dell’arte: i colori, che tutti credono liberi come l’aria, sono in realtà un bene di proprietà, con tanto di diritti di utilizzo e sfruttamento
Poche cose possono sembrare strane come i diritti di esclusiva sui colori. Invece non solo esistono, ma hanno conseguenze importanti. Ad esempio, possono provocare scontri e battaglie ideologiche tra artisti. Il colore da sempre è stato visto come una cosa materiale, come anzi il risultato della lavorazione di particolari minerali. Le scelte stilistiche di intere scuole artistiche regionali dipendevano, oltre che dal gusto del periodo, anche dalla disponibilità dei minerali: committente molto ricco? Allora si va il cielo con il lapislazzulo. Committente meno ricco? Si utilizzerà un materiale meno pregiato, cioè un colore meno bello.
È solo pensando a questa materialità originaria del colore (ben lontana dalla sua concettualizzazione astratta, standardizzata, derivante dalla riproducibilità industriale) che si può comprendere il battibecco di due star dell’arte contemporanea: quello dei britannici Stuart Semple e Anish Kapoor. Una disfida del colore, per la precisione il pinkest pink (il rosa più rosa del rosa) e il nero più nero del nero.
Come racconta Franceinfo, tutto nasce quando Kapoor, in barba ai suoi colleghi, decide di comprare i diritti del colore Ventablack, una varietà di nero scurissimo (assorbe il 99,96% della luce) creato dalla Nanosystem. Ottiene l’esclusiva e, di fatto, impedisce a tutti gli altri artisti di utilizzare quella specifica tinta. Una mossa ragionevolissima dal punto di vista commerciale ma poco generosa sul piano artistico: erano tutti sbalorditi. “Non avevo mai sentito prima d’ora che un artista possedesse i diritti esclusivi su un materiale”, dichiarò sconcertato il celebre pittore Christian Furr.